#1 L’amore per la vita e l’attimo presente. Gli esercizi spirituali in chiave filosofica, secondo Goethe nella lettura di Hadot


F. Gonzalez Torres - A portrait of Ross in L.A. 1991
Fonte web


L’arte è soprattutto un modo per lasciare una traccia della mia esistenza: io ero qui. Ho avuto fame, sono stato tradito, ero felice, ero triste, mi sono innamorato, ho avuto paura, ho avuto tante speranze, ho avuto un’idea, avevo un buon fine, ecco perché faccio arte

Felix Gonzalez Torres

 

1.     Memento vivere. Vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. O il primo

Siamo nella Firenze del Quattrocento (quasi millecinque, come ripetono spesso i personaggi del film). Massimo Troisi, finito lì insieme a Benigni, chissà come, dritto dal XX secolo, si affaccia alla finestra. Sotto di lui, in strada, un monaco molto austero lo esorta a considerare la propria natura umana finita e gli ingiunge queste parole: «Ricordati che devi morire!». E Troisi, in una botta di genio rimasta memorabile, risponde, imbarazzato: «Sì, sì, mò me lo segno…». Chi non ricorda quella scena di Non ci resta che piangere (1984)?

Ricordati che devi morire, o memento mori, era un motto degli antichi romani. Voleva dire ricordarsi della propria finitezza e umanità, del fatto che siamo destinati a diventare cenere, ad andarcene tutti, prima o poi, per cui, in parole povere, non è il caso di montarsi troppo la testa. Il memento mori torna in voga appunto intorno al 1500, con la Controriforma. È allora associato a rappresentazioni artistiche come nature morte, in cui ad elementi naturalistici come fiori recisi o frutta non freschissima, si associano teschi, o altri rimandi al trapasso.

Alcuni secoli più tardi, Goethe rivoltare l’antico detto romano come un calzino: da memento mori a memento vivere. Anziché ricordati di morire, ricordati di vivere.

Curiosamente, rovesciando gli elementi, il significato non cambia, almeno non quanto ci forse aspetteremmo. Ricordarsi di vivere è un po’ il passo successivo al memento mori, la sua logica, ma non scontata conseguenza. La differenza è che la morte avviene una volta per tutte, mentre il vivere implica una durata, una continuità, e con tutte le inevitabili variazioni di ritmo e intensità che questo comporta. Ma una volta preso atto della nostra finitezza, possiamo scegliere di dare valore alla nostra vita. Allora vivremo ogni attimo come fosse l’ultimo, sì, ma anche, dice Goethe, come fosse il primo. È intenso fare ogni cosa, come se la facessimo per l’ultima volta, ma è ancora più commovente fare tutto come se fosse, sempre, ogni volta, la prima.

2.     Goethe e Hadot

Ricordati di vivere, Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali è il titolo di un libro di Pierre Hadot del 2008. Hadot è noto per la sua profonda capacità di adattare la filosofia e il pensiero degli autori del passato al vissuto contemporaneo quotidiano di ognuno di noi. Leggendo i suoi libri è possibile addirittura trarre indicazioni pratiche, o di pratica, per meglio dire, nel senso di indicazioni di qualcosa che possiamo attuare nella nostra vita concreta, al fine di migliorare la nostra esistenza e il nostro stare al mondo.

Ma c’è una specificazione da fare. Non si tratta di migliorare nel senso di essere migliori, più bravi o più di successo, perfezionando, magari, la nostra performace. Si tratta invece di essere più felici, di stare meglio al mondo: essere più a nostro agio, più consapevoli.

Non si tratta di informarsi, ma di formarsi, dice Hadot (p. 3). Questa è la migliore chiave di lettura di questo e degli altri suoi scritti più interessanti.

Hadot ci insegna, insomma, che cosa la filosofia può fare per noi.

In questo libro in particolare si parla di esercizi spirituali. Siamo abituati a riferire questo termine a una pratica religiosa e in effetti la storia dice questo. Come è noto, gli esercizi spirituali sono una pratica gesuita, iniziata da Ignazio da Loyola nella prima metà del XVI secolo. Hadot riprende però il tema degli esercizi spirituali in chiave laica, e filosofica, cercando negli autori indicazioni da seguire per esercitare mente e spirito, e ottenere, come dicevamo, risultati quali una maggiore consapevolezza, profondità eccetera.

In questo libro il riferimento è Goethe. Goethe non è propriamente un filosofo, ma nelle sue opere è delineato un vero e proprio punto di vista filosofico.

Le indicazioni che Hadot trae dalla lettura di Goethe si possono riassumere in tre “esercizi spirituali”.

      I.          La presenza e il presente;

   II.          Lo sguardo dall’alto;

III.          La speranza e il sì alla vita.

Tra le altre cose, questi tre punti, o esercizi, sono utili a vivere meglio e costituiscono anche un buonissimo modo di affrontare alcuni momenti critici dal punto di vista esistenziale, come ad esempio l’ansia. Vedremo come.

In questo primo scritto analizzeremo la prima parte, il presente. Seguiranno altri due testi sugli altri due temi.

Prima però, vorrei fornire un altro spunto di riflessione.

Procederemo così. Fornirò degli stimoli provenienti dal mondo dell’arte, indifferentemente antica, moderna o contemporanea, così come dal mondo della letteratura, del cinema e via di questo passo. Stimoli utili a comprendere meglio, a farci un’idea, a stimolare la riflessione.

Per cominciare, propongo di riflettere sul tema del presente, così come lo legge Goethe, a partire da un’opera d’arte contemporanea. Prendiamo questa interpretazione come un riscaldamento, come quello che fanno gli atleti prima di fare ginnastica.

 

3.     Warm up! - Felix Gonzalez Torres, A portrait of Ross in L.A. 1991

Nel 1991, l’artista cubano Felix Gonzalez Torres, esponente della cosiddetta arte relazionale, espone un’opera dal titolo Untitled. A portrait of Ross in L.A. attualmente, se non erro, conservata al MOMA di NY.

Ross era il compagno di Gonzalez Torres, ed era da poco mancato, morendo per Aids. Al momento della morte, Ross pesava ottanta chili. L’opera è una riflessione sulla vita, sul corpo, sul tempo e sulla morte.

Sono 80 kg di caramelle colorate. Lo stesso peso di Ross. Sono ammassate in un angolo della sala espositiva, e sono a disposizione del pubblico. Possiamo prenderle, spostarle, scartarle, mangiarle. Fare quello che vogliamo, con ogni caramella, una per una.

La prima volta che qualcuno ne sottrare una o due, non ci accorgiamo di nulla, nulla sembra cambiare. Il mucchio si fa più piccolo, ma non te ne accorgi. Poi piano piano la cosa si fa visibile, sempre di più.

Che cosa sono queste caramelle? I significati sono almeno due. Da un lato c’è il corpo, che diventa cosa, oggetto che può essere spostato, curato o abbandonato, così come capita ai malati e ai morenti. Ma poi c’è il tempo. Il tempo della vita e della persona. Ogni caramella è piccola cosa, scorre via e non te ne accorgi. Il mucchio diminuisce, ma ci va molto tempo prima che tu ci faccia caso e capisca il valore di ogni – singola - caramella.

 

4.     La salute del momento

Hadot prende in esame molte diverse opere di Goethe, dal Faust alle poesie, fino al Divano occidentale orientale e il Werther. Qui, in particolare, considera tutti i luoghi dove Goethe riflette sul tema della presenza e del presente.

Presso i (suoi) contemporanei, dice Goethe, il presente è associato a ciò che è triviale, privo di vero interesse e valore. Facilmente la vera bellezza e il valore appartengono a una dimensione lontana, che viene proiettata nel futuro, come ideale da raggiungere, oppure nel passato, come nostalgia. Di fronte a ideale e nostalgia, il presente ci fa una pessima figura: sembra poca cosa.

Il senso profondo del presente, e il suo infinito valore, si fa però chiaro a Goethe in occasione del suo viaggio in Italia, in particolare visitando le rovine di Pompei ed Ercolano. I dipinti rimasti a testimonianza dell’antica civiltà vissuta in quei luoghi gli aprono gli occhi, apparendogli come qualcosa di estremamente profondo e intenso. Soprattutto le immagini di fanciulle che danzano, sembrano quasi fotografie, diremmo, noi, di un mondo scomparso, eppure tutto immerso nell’attualità e presenza dei propri gesti quotidiani. La pittura, insomma, presentifica, per dire così, quei vissuti e lo fa con una grazia e una bellezza tali da rendere quelle figure quasi autosufficienti, compiute, bastanti a sé stesse. Ad esse non serve altro, sono tutte lì, infinite, vive, per sempre, nella loro presenza a sé stesse.

La loro felicità è nella “salute del momento”, non desiderano nulla, solo quello che la vita offre loro in quel preciso istante. A Goethe sembra di aver scoperto un tesoro.

 

5.     Orazio e l’attimo irripetibile

Il mondo antico teneva il presente in grande considerazione. Hadot offre qui un excursus sul significato del tempo presente per le maggiori filosofie ellenistiche, in modo particolare epicurei e stoici.

Per quanto riguarda gli epicurei, il presente è il tempo in cui posso godere del piacere. Sappiamo che Epicuro era molto meno volgarmente edonista di quanto non venga dipinto solitamente. Il piacere di cui io posso godere in modo sano e completo, per gli epicurei, è quel piacere che non ha in sé alcuna componente che possa portarmi dolore. Si tratta dunque per prima cosa di sopprimere il dolore, l’angoscia e qualsiasi forma di ansia. Come? Per prima cosa orientandomi verso quei piaceri che sono alla mia portata, senza desiderare cose impossibili, troppo lontane da me o difficili da ottenere. Questa è la vera forma di saggezza epicurea. In più, dal punto di vista degli epicurei, è saggio rinunciare a un bene inferiore per un bene maggiore. Si tratta dunque di un calcolo di saggezza, alla ricerca del piacere che è non più facile, ma più opportuno ottenere. Meglio se è anche vicino nel tempo, meglio se adesso. Vivere proiettati in un futuro che ancora non c’è, infatti, non è saggio. Per gli epicurei, come Orazio, la felicità è presente, oppure non è.

L’esempio portato da Hadot per gli epicurei è appunto Orazio e il suo classico carpe diem. L’idea del cogliere l’attimo, qui, non va confusa con una sorta di opportunismo o di un vivere spensierato, perché non è così. Proprio perché per gli epicurei io devo eventualmente anche rinunciare a un piacere per un bene maggiore, non è questo che Orazio intende. Il senso del carpe diem è invece nella concezione del tempo che essa sottende. Ogni istante è unico e irripetibile, così come ogni giorno. Ogni momento ha il suo piacere, che io posso imparare a vedere e di cui posso godere. Ciò che va oltre nel tempo non è in mio potere, quindi può essere fonte di angoscia. Non si tratta, è ovvio, di un triviale ogni lasciata è persa, ma di qualcosa di molto più consapevole e profondo, simile alle immagini delle rovine di Pompei.

Ciò che conta, per Orazio, è l’unicità della vita e l’unicità dell’istante, che io devo vivere con gratitudine e meraviglia. Ogni sera il saggio deve poter dire a sé stesso «ho vissuto» e coricarsi con il cuore pieno di gratitudine, senza rimpianti, consapevole della propria finitezza e del tempo che fugge.

 

6.     Gli stoici e l’istante che fugge

Se gli epicurei sottolineano l’importanza del principio di piacere, per gli stoici l’atteggiamento è differente. L’interesse si sposta sul dovere morale, che noi abbiamo, e la sua relazione con il vivere il presente. Vediamo come.

Come gli epicurei, anche gli stoici sono consapevoli della finitezza dell’uomo e della necessità di imparare a volere solo ciò che è in nostro potere. Questo non spingersi oltre i propri limiti è innanzitutto consapevolezza della propria finitezza.

Oggi come allora, una delle regole d’oro contro l’ansia, è quella di comprendere quanto poco dipenda da noi ciò che ci accade intorno e quanto poco possiamo fare per evitare molte delle cose che ci capitano. Seneca vantava così le doti del saggio: egli, diceva, ha tutto, sente che nulla di ciò che gli serve gli manca. Che cosa significa che il saggio ha tutto? Di certo Seneca non pensa ai beni materiali, la macchina o l’ultimo modello di Iphone. Al contrario, essendosi liberato dai desideri inutili, perché irraggiungibili o non funzionali al bene, il saggio non vive più nell’angoscia e finalmente può godere del presente come un dono.

Ispirandosi alla teoria aristotelica della virtù come giusto mezzo, gli stoici di epoca romana vedono nel presente il corrispettivo del momento opportuno, il Kairòs, dei greci.

La loro riflessione è in parte simile a quella che farà Sant’Agostino molto tempo dopo. Il passato non esiste più, perché è già trascorso, il futuro non c’è ancora. Non esiste altro che il presente. Potremmo dire che ciò significa anche che, per esempio, solo nel presente posso trovare gli elementi, i mattoni, per così dire, per realizzare i miei sogni. E accorgermi delle cose che non vanno come dovrebbero… Solo stando nel presente capisco che cosa devo fare.

Ma al di là di queste considerazioni forse troppo concrete per gli stoici (chissà!), l’istante presente è per gli stoici soprattutto l’unico vero punto di contatto con la realtà. Esso la contiene, anzi, tutta, in senso cosmico. Perciò se io sarò capace di vivere appieno il presente, se sarò in grado di pormi in questo punto di movimento, sarò in piena armonia con l’universo intero e non avrò più nulla da desiderare.

Non solo: quando vivo il presente, trovo l’accordo della ragione con il cosmo intero, che è tutto implicato in ogni singolo evento. Sono nella natura, spinozianamente, ne faccio parte e la mia coscienza è come se si dilatasse e diventasse infinita.

In ogni momento, ogni istante, occorre non desiderare altro che quello che c’è e dire sì all’universo intero.

 

7.     Il Kairòs

Dietro questa concezione c’è la nozione greca di Kairòs, il momento opportuno. Il Kairòs è quell’attimo pieno di senso, che tutto racchiude in sé e in cui ogni cosa è possibile e può accadere. È il momento dell’adesso, il momento in cui Marco Aurelio dice «Io dico al mondo: io amo insieme con te» (Hadot, p. 33).

Questa concezione della natura e del tempo era molto presente nel pensiero di Goethe.

Il termine tedesco che Goethe usa per indicare il presente è Gegenwart, che vuol dire letteralmente Gegen, contro/di fronte – e wart, voce del verbo attendere, sostare in attesa. È dunque un sostare in attesa, in un luogo e in un tempo determinato, alla presenza, di fronte a qualcosa, o qualcuno.

Vuol dire presente, ma anche presenza. Ci accorgiamo allora che (essere) “presente” è una parola che ha due significati. È essere in un determinato tempo, adesso, ma è anche essere qui, in presenza.

Qui ed ora, dunque[1].

Ci sono tuttavia due modi di concepire l’istante. Un caso sono quegli istanti eccezionali, in cui capita qualcosa di unico e meraviglioso, che si stagliano nella nostra memoria come momenti di svolta molto importanti per noi. L’altro genere di istante è invece quello della vita comune e quotidiana, quello di ogni giorno.

Tra i due, in certo senso, va trovata una sorta di mediazione. Goethe ci pensa a lungo e alla fine giunge a trovare l’eccezionale anche nel momento più piccolo e apparentemente insignificante. Come?

C’è la felicità di esserci, dice Goethe, per le cose che viviamo e di cui godiamo. Ma c’è anche la felicità nell’esserci, del fatto che l’essere sia e che noi siamo in esso. È qualcosa di più profondo. Ma come arrivare in questo luogo, che è anche un adesso?

L’esempio artistico che mi viene in mente sono le donne di Vermeer, immerse nella luce che proviene da una sola finestra, che profondamente illumina ogni loro piccolo e semplice gesto.

Queste figure sono piene di senso, riempiono di senso il vivere comune, le azioni quotidiane semplici e ripetitive, come fossero mantra fatti di gesti, vere proprie meditazioni.

Viene in mente il quadro della ricamatrice. Qui, come nota Didi-Hubermann, la donna cuce, e un filo rosso, sul cuscino accanto a lei, sembra evocare il sangue. In un attimo abbiamo una storia, una piccola narrazione. La donna cucendo si punge un dito e un piccolo rivolo di sangue sgorga da lei e si posa sul ricamo. Un piccolo racconto che avviene in un attimo. Un battito di ciglia (Augenblick).

Ma se Vermeer è una mia citazione, c’è un esempio tratto dal mondo dell’arte evocato dallo stesso Goethe per comprendere il senso del presente per lui. Si tratta del Laocoonte.

 

8.     Laocoonte

Avete presente quando chiedete indicazioni su una strada che non conoscete e di vi dicono cose tipo: hai presente dove c’è il negozio tale, l’uscita per il tal posto ecc. ? Ecco, devi svoltare prima. Prima. Ma come prima? Se io non so la strada, quando avrò visto il riferimento che mi hai dato tu – l’uscita sull’autostrada, il negozio ecc. – vuol dire che mi sono già persa! Come faccio a svoltare prima? Che cosa vuol dire questo prima?

Secondo la leggenda, Laocoonte era un troiano. Quando, durante la guerra con i greci, vide entrare in città il cavallo, dono di Ulisse, Laocoonte s’insospettì. Ne aveva tutte le ragioni, in effetti… I greci diventavano improvvisamente generosi… come mai? In ogni caso, Laocoonte scagliò una lancia contro il ventre del cavallo di legno, che ovviamente risuonò a vuoto. Insomma, ci mancò poco che Laocoonte mandasse a monte i piani di Ulisse per la conquista di Troia. Questo non piacque alla dea Atena, che teneva per i greci, e decise quindi di punire Laocoonte e i suoi figli facendoli uccidere da due giganteschi serpenti marini.

La statua ellenistica (di Apollo di Rodi, forse, l’attribuzione è incerta) rappresenta il momento in cui i serpenti aggrediscono i tre personaggi. È la descrizione di un momento, appunto, una sezione di tempo molto breve. E qui veniamo all’aneddoto di quello che dà le indicazioni stradali. Quello scolpito da Apollo di Rodi, è l’attimo prima. Prima del primo morso, è quella frazione di secondo prima della vera e propria aggressione. Sui volti dei personaggi si legge il terrore, l’istinto a divincolarsi dalla presa dei serpenti. Hanno appena il tempo di accorgersene ed è troppo tardi. Hanno perso l’uscita per svoltare. Sono già persi.

È un vero racconto, quello che vediamo nella scultura, perché racchiude in sé tutta una serie di tempi. Ma li racchiude in un attimo: quello che prelude a ciò che segue e ha in sé ciò che lo precede, le premesse dell’azione e le sue conseguenze. Passato e futuro, insieme. Qui ed ora.

Eccolo qui l’attimo presente, quell’attimo in cui tutto, come vorrà poi anche Agostino, si compendia e trova senso.

È il momento del passaggio, della vita. L’attimo in cui tutto trova la sua precisa collocazione, come i tasselli di un puzzle. Ecco che allora, come si dice, everything falls into place.

 

9.     Che ansia!

Nel 1988, sempre Felix Gonzalez Torres scriveva queste parole a Ross, la persona dell’opera di cui abbiamo parlato al principio:

«Non aver paura degli orologi» aveva scritto Félix a Ross nel 1988, «sono il nostro tempo. Il tempo è stato generoso con noi. Abbiamo marchiato il tempo col dolce sapore della vittoria. Abbiamo dominato il destino incontrandoci in un certo tempo e in un certo spazio. Siamo un prodotto del tempo, perciò rendiamo merito a chi è dovuto: al tempo stesso. siamo sincronizzati, ora e per sempre».

Queste parole erano scritte in una lettera battuta a macchina ed esposta accanto a un’opera che divenne poi molto famosa. L’opera s’intitola Perfect Lovers ed è oggi al Moma di New York. Rappresenta due orologi normalissimi, di quelli a parete che abbiamo tutti in casa, magari in cucina, bianchi di plastica, con le lancette nere. Gli orologi di Felix Gonzalez Torres sono esposti così, inizialmente sincronizzati, vanno in armonia.

Ma con il passare del tempo, fatalmente questa armonia si perde. Non si sa bene come, le ore dell’uno non corrispondono più a quelle dell’altro, inevitabilmente.

Questione del caso, della meccanica, degli indiscernibili di Leibniz, chi lo sa.

Fatto sta che i due orologi perdono la loro originaria sincronizzazione. Noi sappiamo che, nel caso dell’artista, fu la morte a interrompere l’andamento armonico del tempo congiunto. Ma l’opera ha una quantità di significati possibili. Quante volte in una coppia, anche di amici o parenti, non solo nell’amore, dopo un po’ si perde la prima armonia? Quante volte il tempo dell’uno non si accorda più con quello dell’altro? E quanti aggiustamenti sono necessari per ritrovare il ritmo o decidere che è per sempre perduto.

Ma i due orologi possono anche significare altro: siamo noi e il tempo. Noi e il presente. Noi che siamo finiti, il cui tempo si interrompe, immancabilmente, a un certo punto. Eppure ancora noi che cerchiamo l’armonia con il tutto, quella dapprincipio prestabilita - e qui ancora una volta potremmo citare Leibniz.

Moltissime persone, ai nostri giorni, soffrono di ansia e di depressione. Ansia e depressione hanno a che fare con il tempo, e precisamente con la difficoltà a collocarsi nel presente. Se viviamo proiettati nel futuro, cercando di anticipare ciò che accadrà, viviamo nell’ansia. Se invece ci immergiamo nel passato, nel ricordo di avvenimenti pieni di rimpianto o, peggio, di rancore, finiamo nella depressione.

La concezione di stoici ed epicurei, nella lettura di Goethe, da questo punto di vista è un vero toccasana, perché permette di stare meglio. Senza pendere da un lato o dall’altro, senza cadere nell’eccesso di nostalgia, o di ideale vagheggiato, e magari farlocco.

Ma non è solo questo, è molto di più. L’apertura mentale e spirituale che viene dal vivere il presente è in realtà densa di conseguenze. È il passaggio dall’attenzione ai soli grandi momenti eccezionali all’eccezionalità di ogni singolo momento vissuto.

Per capire che siamo come gli orologi di Gonzalez Torres, anche noi. Sincronizzati o no gli uni con gli altri, e con il tutto. E quando siamo sincronizzati, allora accade qualcosa di straordinario.

 

10.  Guarda l’attimo negli occhi (Augenblick)

Accettare l’attimo presente, esserne grati, è dono di sé ed è gioia, al contempo. Ma una gioia profonda, dell’animo. Qualcosa che non si trova a buon mercato, che occorre conquistare con un gesto preciso. È il gesto che accetta, accoglie il presente e la finitezza che siamo. Per renderci infiniti, partecipi di qualcosa di più grande.

È questo il senso della frase di Goethe ne Il divano occidentale orientale:

Freude des Daseins ist groß,
Größer die Freud' am Dasein.

Che vuol dire: grande è la felicità dell’esserci, ma più grande è la felicità nell’esserci.

La distinzione, sottile ma immensa, è tutta nella consapevolezza. Di essere finiti, eppure di essere parte di qualcosa che finito non è.

C’è un altro artista contemporaneo che ha riflettuto sul tema dell’attimo presente. Si tratta di un fotografo e artista, tedesco come Goethe, ma famoso soprattutto per aver vissuto e reso conto con le sue opere della cultura underground londinese dei primi anni duemila. Si tratta di Wolfgang Tillmans.

Nel 2007 – 2008, Tillmans realizzò una serie di immagini dal titolo Paper drops, ovvero gocce di carta. L’opera è apertamente ispirata al pensiero di un mistico/filosofo indiano, Krishnamurti, il cui pensiero s’incentra appunto sul vivere il presente in una dimensione molto simile allo zen.

Si tratta di una serie di fotografie di semplici fogli di carta piegati fino a formare l’immagine di una goccia. Ripresi da molto vicino (luogo), nel preciso attimo in cui un foglio tocca l’altro estremo, senza essere piegato con forza (tempo), i fogli di carta si confondono con gocce d’acqua, o forse di che immaginiamo cadute, per esempio, su un vetro.

Il senso del lavoro è il cogliere l’attimo particolare, piccolo e infinito insieme.

In molte altre opere Tillmans riprende cose comuni, brevi, apparentemente insignificanti, e ne scava dentro un universo intero.

Bellissima è, in questo senso, quella fotografia in cui vediamo una semplice tazza di caffè americano, ripresa dall’alto, con l’immagine di un albero che si riflette dentro il caffè e disegna un mondo. Il mondo intero, anzi, tutto dentro quella tazza di caffè, così come dentro un attimo è sempre racchiuso l’universo intero, anche se non lo sa.

Io guardo il riflesso nella tazzina del caffè e in quel riflesso mi perdo, sogno. Sono completamente nel presente. Sono qui ed ora. Sono anche lontano da me, però, sono anche in un altro tempo. Però qualcosa ho perso. Che cosa? A dire il vero, ho perso una cosa molto ingombrante: quella che chiamiamo Io, e che altro non è che un intralcio per la completa felicità.

Il titolo dell’opera è Chaos cup (1997)

 

11.   (Finale I) Io ho tutto

Riguardo al vivere il presente, Seneca, lo stoico, dice: «Io ho tutto.» In che senso il saggio, che vive il presente ha tutto? Non vuol dire che aveva la casa a Creta e il carro con l’auriga personale, ultimo modello (il carro!) appena uscito dal concessionario, è chiaro. Non è neanche come dire: ok sono a posto, non mi manca niente. Neppure è il rimprovero che sono soliti fare i genitori agli adolescenti inquieti o i partner ai compagni più romantici di loro: «Ma che cosa vuoi? Non ti manca niente!».

Niente del genere. Il saggio che dice quelle parole davvero ha tutto. Non possiede più nulla e nulla desidera, è vero. Anzi, ha perso anche sé stesso. Ma forse proprio per questo, avendo trasceso i propri limiti, è finalmente giunto a una più profonda felicità. Che nessuno potrà mai più togliergli, tra l’altro, a differenza dell’auriga e della casa a Creta.

Ma che cos’è questo? Misticismo? Gnosi?

Tutto può essere, è chiaro. Poiché abbiamo citato molti autori diversi, di tempi e culture tra loro molto diverse, ciascuna interpretazione è probabilmente almeno in parte valida.

Sta a noi tirar fuori da tutti questi stimoli una riflessione, una lettura e una strada personale, che ci serva, anche, a stare meglio.

Mi permetto, perciò, aggiungere un ultimo stimolo a quanto detto fino ad ora.

Leggendo Hadot e le parole di Seneca, mi sono ricordata che quelle stesse parole - io ho tutto - sono state pronunciate da molti mistici anche cristiani.

Famose sono le parole di Santa Teresa d’Avila, per cui nulla ci deve turbare, perché solo Dio basta (da intendersi nei due sensi: Dio da solo basta a renderci felici, non serve altro. Ma è anche vero che soltanto Dio può bastare, saziare l’anima).

Meno famose, ma molto, molto simili a quelle di Seneca sono, sorprendentemente, le parole di della Beata Chiara Luce Badano, una ragazza morta giovanissima di un brutto male, che ebbe il coraggio di donare a Dio il suo dolore, in una unione mistica profondissima. Le pronunciò in occasione del suo diciottesimo compleanno, dopo aver deciso di donare tutti i suoi averi a una missione in Africa. A me non serve altro, «io ho tutto», diceva.

Non è semplice comprendere queste parole e perché sono parole di vita e di speranza e non di dolore, ma si intuisce che nascondono qualcosa di grande, che mi riprometto di approfondire in altro luogo (stay tuned!). Certo è che chi ha tutto è anche pronto a tutto, in questo singolo attimo presente. Ora.

Però, mi direte, non siamo tutti santi, né mistici. E allora?

 

12.   (Finale II) Viaggiando su un pulmino Volkswagen

Nel 1982 Julius Cortazar e la moglie Carol Dunlop si mettono in strada da Marsiglia verso Parigi con il loro pulmino Volkswagen[2]. La loro regola: non uscire mai dall’autostrada e, durante il viaggio, non ammettere alcun tipo di intromissione dal mondo normale e quotidiano. Niente telefono, niente uffici stampa, niente contatti di lavoro, o altro. Decisero di consentirsi solo quegli incontri che si potevano cogliere lì sul momento, nella realtà esperita. Gli incontri fatti per caso, nel loro cammino.

I due così parlano tra loro, si fermano, si amano, appunto fanno incontri inattesi, vivono. Rendono quei giorni di viaggio insieme una sorta di pellegrinaggio dentro il presente e una specie di avventura. Dove però davvero il senso non è tanto il punto di arrivo, quanto il percorso, con gli eventi, le persone e i pensieri che su esso si trovano.

Si capisce che il senso del viaggio era ben altro, molto oltre Parigi. Si ricordavano insomma, l’uno con l’altro, costantemente, di essere vivi. Era per capire, e per dire, che la vita, momento per momento, è molto più ricca e densa di doni di quanto non appaia a chi, dall’esterno, si limiti a considerare il mero viaggio, soltanto la meta.

Non si può fare un viaggio così senza aver in mente un pensiero simile a quello espresso dalle parole di Goethe. Vivere attimo per attimo, ciò che la vita offre. Non desiderare altro, ma essere così, semplicemente in armonia con il tutto. Memento vivere. Ricordati di vivere.

 

13.   Post-scriptum in tempi difficili. O me o vita.

Non è sempre facile vivere il presente. Il nostro, di questi tempi, è particolarmente duro. Viene allora da aggiungere ancora una parola, una riflessione nata da una poesia, che getta una luce particolare su tutto quanto abbiamo detto fino a qui.

La cito a partire da un film molto famoso e molto a tema con queste nostre riflessioni. È  L’attimo fuggente di Peter Weir (1989).

«Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: - dice a un certo punto Robin Williams, alias Professor Kitting - noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.

Citando Walt Whitman, “O me o vita, domande come queste mi perseguitano. Infiniti cortei di infedeli. Città gremite di stolti. Che v’è di nuovo in tutto questo, o me o vita.” Risposta: “Che tu sei qui, che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso”.

Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.

 Quale sarà il tuo verso?»

In tempi così difficili come quelli che viviamo, mi è sembrato questo il modo migliore per concludere la nostra riflessione sul momento presente - in ogni senso, di luogo e di tempo, della locuzione.

L’idea qui contenuta che vorrei sottolineare, è la necessità di fare la nostra parte. E farla insieme con gli altri. Come diceva il compianto Ezio Bosso, grande artista che ci ha lasciato proprio nei giorni in cui scrivo Non tanto essere d’accordo con loro, quanto tutti insieme essere un accordo.

Le parole di Withman (e di Weir), e quelle di Bosso, potrebbero concludere anche le altre due sezioni di questo stesso studio, quelle che seguono. Lo sguardo dall’alto, il sì alla vita.

In questo luogo sottolineo il punto in cui dice: che tu sei qui, che la vita esiste. Eccolo qui, l’attimo presente. Dopo tutto il nostro excursus lo capiamo ancora meglio.

È questo il senso in cui Goethe parlava di amore nell’esserci, oltre l’amore per l’esserci.

Poi c’è lo sguardo dall’alto, e il sì alla vita a cui è legato il concetto illuminante di speranza. Per questi rimando ai prossimi paper.



[1] Domanda: L’uso di sistemi come zoom mette in crisi la nostra percezione del qui ed ora? Siamo davvero qui quando parliamo, per esempio in una video call? Come negarlo?

[2] Julius Cortzar e Carole Dunlop, Gli autonauti della cosmostrada. Ovvero: un viaggio atemporale Parigi-Marsiglia - Einaudi